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Helga Schneider, Il rogo di Berlino, Adelphi
Sfiorai con lo sguardo lo spazio vuoto dove avevamo vissuto gli uni sugli altri ammassati come bestie, imponendo al prossimo il nostro odore, il nostro malumore, il nostro egoismo. Eravamo andati oltre il sopportabile, oltre il vivibile, oltre l’immaginabile, oltre le nostre forze, oltre l’umano.
Helga è molto piccola quando la madre decide di arruolarsi nelle SS e abbandonarla assieme al fratellino Peter e al marito anche lui al fronte.
Da quel momento inizia per Helga un vero e proprio inferno. Infatti il padre si risposa e la matrigna ha una forte avversione verso la bambina, tanto da farla rinchiudere in un istituto per “ragazzi strani”, quasi un manicomio per bambini, e in seguito in una sorta di “fattoria rieducativa” dove finalmente trova un po’ di serenità. Ma il peggio deve ancora venire. Helga verrà richiamata a Berlino nell’autunno del ’44, all’età di otto anni, e vivrà per mesi in una città in fiamme bombardata quotidianamente dagli alleati, rinchiusa in una cantina stipata di persone, senza cibo, acqua e qualsiasi cura medica. In questo romanzo la Schnider, raccontandoci la sua biografia d’infanzia, ci offre un punto di vista nuovo e doverso, sulla seconda guerra mondiale, quello dei carnefici. Carnefici a loro volta vittime.
La madre di Helga, arruolatasi nelle SS, assumerà il ruolo di guardiana nel campo di concentramento di Auschwitz, e veglierà, come un grottesco totem, su due tragedie. Il dramma della popolazione civile di Berlino bombardata dagli alleati e quello, ancor più bestiale, degli ebrei sterminati nei campi di concentramento.
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